Le violiniste Giulia Freschi e Hanna Schmidt e il pianista Matteo Scalet saranno protagonisti del «Concerto di Primavera» che avrà luogo domenica 28 aprile, con inizio alle ore 17.00, a Tarcento nella sala della villa settecentesca De Rubeis Florit.
Da Beethoven a Franck: circostanze intorno a due pagine significative della letteratura per violino e pianoforte (con una postilla su Šostakovič)
Il programma vede la giustapposizione di due dei più importanti brani del repertorio per violino e pianoforte (o, alternativamente, per pianoforte e violino): la Settima Sonata di Ludwig van Beethoven (1770-1827) e la Sonata di César Franck (1822-1890). La questione della denominazione (sonate per violino e pianoforte o sonate per pianoforte e violino, come riporta il frontespizio delle loro prime edizioni?) è nel caso di queste due sonate piuttosto voluttuaria, dal momento che i due strumenti hanno evidentemente una natura paritaria, ma offre lo spunto per inserire queste due pietre miliari del repertorio cameristico nel solco di una tradizione. Da un punto di vista organologico, è utile ricordare che solo nel corso dell’ultimo ventennio dell’Ottocento il pianoforte approdò a una forma simile a quella in cui lo conosciamo oggi. I primi tentativi di realizzare uno strumento a tastiera che potesse modulare l’intensità del suono mediante la percussione delle corde si devono a Bartolomeo Cristofori e Gottfried Silbermann, e risalgono alla prima metà del Settecento. Quel cosiddetto “fortepiano” impiegò tuttavia più di mezzo secolo per raggiungere una diffusione capillare in Europa: ne consegue che, nell’ambito del repertorio per violino e strumento a tastiera, le prime pagine pensate esplicitamente per il fortepiano sono quelle dell’ultimo quarto del XVIII secolo (per avere un riferimento pratico nel repertorio “canonico” pensiamo alle 6 Sonate “Parigine” KV 301-306 di Mozart, pubblicate nel 1778). Se per buona parte della vita di Mozart clavicembali e fortepiani coesistettero pacificamente, Beethoven fu forse il primo dei grandi compositori abbastanza estranei all’estetica del clavicembalo. Prima di questo momento risulta quindi problematico parlare sia di repertorio per violino e pianoforte, che per pianoforte e violino, dato che il pianoforte o non esisteva o non era lo strumento a tastiera più diffuso.
Prescindendo dalla pedanteria di queste considerazioni, per la quale mi scuso con chi sia giunto fin qui nella lettura, possiamo ora proseguire dicendo che fin dal Seicento gli strumenti a tastiera e il violino hanno interagito in vari modi. All’inizio del Settecento si affermò la moda delle sonate per violino con accompagnamento di basso continuo (quindi clavicembalo o organo, ma anche violoncello, dove il violino sostanzialmente sostituisce la voce umana nell’ambito della monodia accompagnata) scritte prevalentemente da violinisti-compositori, tra cui Corelli, Vivaldi, Locatelli, Tartini, Geminiani, Veracini, Leclair, Biber e innumerevoli altri. Troviamo poi una cospicua produzione di sonate per strumento a tastiera che, pur essendo autosufficienti in tale veste, vennero integrate con parti “ad libitum” per violino al fine di rendere la loro esecuzione un momento conviviale in un contesto domestico. Altra storia ebbero invece le sonate con violino “obbligato”, dove, seppur prevale la parte pianistica, al violino vengono affidati spunti tematici e di conseguenza la sua presenza diviene indispensabile ai fini dell’esecuzione. A questo filone va probabilmente ricondotta la nascita delle cosiddette “sonate concertanti”, dove lo strumento a tastiera e il violino dialogano finalmente da comprimari. Contribuì allo sviluppo di questo genere anche l’affermarsi di una generazione di violinisti virtuosi che non si dedicava più in prima persona alla composizione musicale: la necessità che i compositori scrivessero per loro musica nuova da eseguire aprì a nuove possibilità creative (a titolo di esempio, la Sonata KV 454 di Mozart del 1784, pensata per l’esecuzione da parte della violinista mantovana Regina Strinasacchi, si può considerare un frutto già maturo di questa nuova stagione musicale). Beethoven, che destinò al “pianoforte” la sua produzione musicale per strumento a tastiera, fu autore di dieci sonate con violino, tutte improntate al modello della sonata concertante. Di queste, una soltanto lega il suo nome direttamente a uno specifico violinista, vale a dire Rodolphe Kreutzer (pur essendo stata inizialmente dedicata a un altro virtuoso, ossia George Bridgetower). Beethoven conobbe Kreutzer nel 1798 e nove delle sue dieci sonate videro la luce proprio nei pochi anni che intercorrono tra il 1797 e il 1803. Se è verosimile pensare che la conoscenza di Kreutzer abbia favorito lo sviluppo di questa produzione in poco tempo, non va comunque dimenticato il legame di Beethoven con altri violinisti come Ignaz Schuppanzigh, primo esecutore delle due Romanze beethoveniane per violino e orchestra, e Franz Clement, che tenne a battesimo il Concerto op. 61. La decima sonata, separata dalle altre da oltre un decennio, fu invece scritta nel 1816 pensando al violinista francese Pierre Rode. La Settima Sonata in do minore di Beethoven è la pala centrale del trittico di sonate op. 30, da cui il pubblico di ArsNova FVG ha già avuto modo di ascoltare lo scorso dicembre la Sonata conclusiva in sol maggiore (non resterebbe ora che programmare l’esecuzione della Sonata in la maggiore). Queste tre sonate, scritte nella primavera del 1802, risalgono a un periodo segnato per Beethoven sia da grandi difficoltà, con il manifestarsi della sordità, che da grande entusiasmo compositivo. Mentre in altre opere contemporanee, a partire dalle tre sonate per pianoforte solo op. 31, risulta chiaro un nuovo corso creativo caratterizzato specialmente da sperimentazioni nella forma (“ein neuer Weg”), nelle sonate op. 30 tale intraprendenza rimane più sottotraccia e l’approccio è almeno apparentemente più all’insegna della continuità. La sonata in programma oggi è la più imponente della terna, l’unica composta da quattro movimenti (anche se in realtà durante la gestazione dell’opera pare che Beethoven avesse considerato la possibilità di cassare il terzo, trovandolo non troppo coerente con il resto del brano). I movimenti esterni della sonata sono segnati da un’atmosfera tumultuosa, che trova bilanciamento in un particolarmente ampio Adagio cantabile dal carattere nobilmente contemplativo e in uno Scherzo con caratteristici elementi ironici beethoveniani (spostamento di accenti e reminiscenze dell’andamento delle danze tedesche, specialmente nel Trio). La stessa tonalità di do minore, nel linguaggio beethoveniano, non può che richiamare un certo patetismo drammatico comune a opere della prima fase, come ad esempio la Sonata “Patetica”, il Trio per archi op. 9 n. 3 e il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra. Pagine, queste, che richiedono ai loro esecutori anche un notevolissimo impegno strumentale: la Sonata op. 30 n. 2 non a caso è spesso considerata, al pari della Kreutzer, la più ostica nel corpus beethoveniano.
Compiendo un salto temporale di quasi 85 anni, arriviamo a Parigi agli inizi della Belle Époque, con il cantiere della Tour Eiffel che stava per avviare i lavori di costruzione. La Sonata di Franck (1886) è giustamente considerata uno dei brani più importanti all’interno del processo di definizione di un nuovo stile francese sul finire dell’Ottocento, ma è tuttavia impressionante notare quanto sia debitrice della tradizione beethoveniana e non solo. Curiosamente, nonostante fino al 1870 le sonate per violino e pianoforte di Mozart e Beethoven avessero trovato a Parigi una discreta diffusione (e la Settima Sonata di Beethoven fu tra quelle a riscontrare il maggior numero di esecuzioni e apprezzamento), ciò non aveva portato alla composizione di molti lavori su tali modelli. Fu la guerra franco-prussiana del 1870-71, da cui la Francia uscì sconfitta, a riaccendere un certo ardore patriottico in contrapposizione alla Germania. In ambito musicale ciò si concretizzò nella fondazione della Société Nationale de musique, che sotto l’auspicio del motto “Ars Gallica” riunì vari compositori con l’intento di dare un nuovo corso alla musica francese, specialmente attraverso la promozione di nuovi lavori sinfonici e cameristici di ampio respiro. La sonata per violino e pianoforte, a partire dai primi capolavori di Fauré (1877), Saint-Saëns (1885) e Franck (1886), divenne un topos tra i più frequentati nella produzione da camera francese. La fortuna eccezionale di cui ha goduto la Sonata di Franck, al netto di un indubbio valore estetico, si deve anche all’opera del suo dedicatario: Eugène Ysaÿe (1858-1931), principe del violinismo franco-belga, ne fece infatti uno dei suoi cavalli di battaglia, e in questo modo il brano entrò rapidamente anche nel repertorio degli altri grandi violinisti del XX secolo. Brano tra i più amati dal pubblico, la Sonata di Franck, non ha certo bisogno di grandi presentazioni. Appare comunque importante sottolineare la ciclicità della forma, vale a dire con temi che ricorrono tra i vari movimenti, sull’esempio del tardo Beethoven, ma anche di Wagner e Liszt. A livello strutturale l’alternanza dei quattro movimenti lento-veloce-lento-veloce richiama quella delle sonate antiche, come pure la fitta polifonia e l’estensivo uso del canone nel movimento finale rimandano alle forme arcaiche che Franck, essendo un organista, conosceva bene. Parlando dei contenuti, il linguaggio densamente cromatico è inconfondibile. Il Recitativo-Fantasia appare il movimento più innovativo, facendo incontrare il recitativo operistico con continue reminiscenze dei temi portanti della sonata. L’influenza beethoveniana è ormai largamente riconosciuta: si pensi ai recitativi strumentali delle sonate op. 110, della Tempesta, ma anche della Kreutzer, e all’incedere del primo tempo della Sonata quasi una fantasia op. 27 n. 2 (il famoso “Chiaro di luna”). Non deve sorprendere che gli allievi di Franck considerassero il loro maestro l’unico degno successore di Beethoven.
In conclusione al programma troviamo quei lollipops che sono i Cinque Pezzi di Dmitrij Šostakovič (1906-1975), nei quali, per la verità, Šostakovič appare puramente in pectore. La compilazione di questa suite si deve infatti a Levon Atovmian (1901-1973), poliedrica figura nella costellazione artistica sovietica, che nel corso della sua vita fu chiamato a ricoprire numerosi incarichi direzionali e di coordinamento in ambito musicale, teatrale e cinematografico. Al giorno d’oggi il suo nome (non) viene ricordato prevalentemente in relazione ai suoi numerosi arrangiamenti di pagine di Šostakovič e Prokofiev: Atovmian, spesso su mandato degli stessi compositori, si occupò di trascrivere loro composizioni in formati destinati al mercato musicale. Un esempio su tutti è la celeberrima Suite per orchestra di varietà, a lungo ritenuta opera dello stesso Šostakovič, che è in realtà un vero e proprio pastiche realizzato da Atovmian. I Cinque Pezzi per due violini e pianoforte rientrano in questa casistica, comprendendo infatti temi di Šostakovič estrapolati furbescamente da pagine scritte per il cinema e il teatro. Abbiamo così il Preludio, dal film Ovod del 1955 (che descrive peraltro immaginarie vicende della resistenza dei patrioti italiani contro l’occupazione austro-ungarica nel Nord Italia), la Gavotta e l’Elegia dalle musiche di scena per un adattamento de La commedia umana di Balzac allestito nel 1933-34, un Valzer che recenti studi hanno permesso di far risalire alla partitura per il film Love and Hatred del 1935 e la Polka dal balletto Il rivo chiaro dello stesso anno. Atovmian maneggia i temi di Šostakovič effettuando un’operazione che si può paragonare a quella di un abile fiorista, confezionando un gradevolissimo bouquet che ci mostra il lato più lirico e nazional-popolare di Šostakovič. Del resto, la vastissima produzione musicale che Šostakovič realizzò per l’industria culturale sovietica, rimane in genere piuttosto distante dalle pagine più impegnate che tutti conosciamo in ambito sinfonico e cameristico. Non ci resta quindi che ringraziare Atovmian per la perizia con cui è stato in grado di consegnare alla storia melodie che altrimenti sarebbero probabilmente cadute in oblio, auspicando che il suo contributo in tal senso venga ricordato in maniera più puntuale.
Matteo Scalet